Imporre questa evidenza non è stato facile. Gli animalisti hanno sempre dovuto fare i conti con chi considera le loro preoccupazioni irrilevanti, puerili, sentimentali, interclassiste. Accusati più volte di esprimere rivendicazioni parziali e riformiste, gli animalisti più radicali hanno reagito chiarendo che la liberazione degli animali andava intesa come parte integrante di un più vasto progetto di liberazione sociale. Poi, per meglio rispondere alle critiche ricevute, si è fatta strada fra loro la necessità di fornire un fondamento teorico - dal punto di vista filosofico e da quello “scientifico” - a quanto veniva troppo spesso liquidato come un moto dell’animo, nobile ma quanto mai ingenuo.
Da qui alla tentazione (in cui per fortuna non tutti sono caduti) di rispedire al mittente le critiche di parzialità, di fare dell’animalismo una nuova totalità, un nuovo paradigma, il passo è stato breve. Con esiti a tratti imbarazzanti, che vanno dalla diffusione dell’ideologia antispecista ad un oltranzismo in difesa della Vita che finisce con lo sposare le tesi più reazionarie, fino all’epurazione dal linguaggio di ogni parola o concetto che potrebbe risultare, se non politicamente, almeno animalisticamente scorretto. Mentre una delle ricadute pratiche quotidiane più comuni è una certa intolleranza nei confronti dei «mangiatori di cadaveri», ovvero di chi ha una alimentazione onnivora.
C’è da chiedersi: tutto ciò, cos’ha a che fare con la liberazione animale?
Dall’antispecismo...
C’è da chiedersi: tutto ciò, cos’ha a che fare con la liberazione animale?
Dall’antispecismo...
A dire il vero, risulta assai difficile credere che l’anti-specismo sia il superamento del vecchio liberazionismo animalista, come spesso viene presentato. Da parte mia, preferisco di gran lunga “l’infantile” attivismo radicale in difesa delle creature più deboli ad una “matura” teoria che incita alla loro sacralizzazione. Il primo apre le gabbie, il secondo conforma i cervelli spacciando per etica (intesa come scelta individuale) quella che ha tutte le caratteristiche di una morale (intesa come prescrizione collettiva). Per opporsi allo sfruttamento degli animali, per metterli al sicuro, l’antispecismo li tramuta in esseri intoccabili. Da battaglia per la libertà si è trasformata in una contesa per il rispetto della Vita, spostando inevitabilmente il nodo della questione: dall’oppressione cui sono sottoposte alcune specie animali si passa al rapporto che si deve avere con ogni specie animale. Se l’obiettivo non è più quello di spezzare tutte le sbarre ma di rispettare tutte le forme di vita, finirà che dovremo prendere i voti e indossare il saio di S. Francesco, accogliere in casa i fratelli ratti e nutrire le sorelle zanzare.
Per chi è già fin troppo allergico alla retorica che vede «fratelli e sorelle» in ogni essere umano, questa diventa una variante laica del pio «siamo tutti figli di Dio». Includere in questa inesistente famiglia anche gli animali non fa che irritare ancor più per la stucchevole ipocrisia che emana. Avendo le mie simpatie ed antipatie fra gli esseri umani, non posso che confessare di averle anche fra gli animali. E - che nessuno se ne abbia a male - non verserei una lacrima per la morte di certi esseri umani, né per quella di certi animali. Trovo francamente ridicole le pretese di chi vorrebbe stabilire una volta per tutte il giusto comportamento dell’essere umano a partire da una idilliaca immagine della natura.
Primo, la natura è caso, imprevedibilità, differenza, non identità e omologazione a un unico ordine. Secondo, ammesso e non concesso che esistano delle Leggi della Natura universali, perché dovrei supinamente conformarmi ad esse? E se volessi sfidarle?
Mi sembra indicativo che la prima espressione teorica dell’antispecismo venga fatta risalire dai suoi stessi sostenitori al 1789, quando dalle pagine del suo Introduzione ai principi della morale e della legislazione il filosofo Jeremy Bentham invitava i propri lettori a non fare differenze fra le sofferenze degli animali e quelle degli esseri umani. Che questo appello sia stato lanciato da un’opera con delle pretese normative intenzionata a rendere la condotta umana «esatta come la matematica», che il suo autore sia stato in quegli stessi anni l’inventore del Panopticon (il carcere-fabbrica totale, perennemente sorvegliato da guardiani) - si tratta di una sfortunata coincidenza che dimostra che anche nel marcio c’è del buono o di un segno premonitore dell’ambiguità dell’antispecismo?
Da quanto ho potuto capire, l’antispecismo è l’opposizione a quel fantasma chiamato “specismo”, cioè alla pretesa degli esseri umani di ritenersi superiori agli animali e quindi di poter disporre di essi. Secondo uno dei suoi maggiori teorici contemporanei, Peter Singer, è la lotta contro «un pregiudizio o atteggiamento di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie e a sfavore di quelli dei membri di altre specie». Lo stesso termine è un neologismo che introduce un’analogia che fa furore fra gli “interessati” e che troverete ripetuta fino all’ossessione nella loro letteratura: «Il razzista viola il principio di eguaglianza attribuendo maggior peso agli interessi dei membri della sua razza qualora si verifichi un conflitto tra gli interessi di questi ultimi e quelli dei membri di un’altra razza. Il sessista viola il principio di eguaglianza favorendo gli interessi del proprio sesso. Analogamente, lo specista permette che gli interessi della sua specie prevalgano su interessi superiori dei membri di altre specie. Lo schema è lo stesso in ciascun caso».
Un altro noto teorico antispecista che va per la maggiore, Tom Regan, non è del tutto d’accordo col suo collega. Regan non gradisce che si parli di «interessi» a proposito degli animali, trattandosi di un’argomentazione che puzza troppo di calcolo utilitaristico, di pragmatismo. Il suo chiodo fisso è un altro, i diritti, di cui va ghiotto. Leggiamolo: «Qualcuno potrebbe disfarsi subito di ogni peso dicendo che la concezione dei diritti è antiscientifica e antiumana. Questa è retorica. La concezione dei diritti non è antiumana. Noi, in quanto esseri umani, abbiamo tutti il diritto primario a non essere danneggiati, un diritto che si cerca di evidenziare e difendere tramite la concezione dei diritti; ma non abbiamo nessun diritto di danneggiare altri, o di metterli in condizioni di poter essere danneggiati, al solo scopo di ridurre al minimo i rischi derivanti dalle nostre azioni, frutto di libere scelte. Tutto ciò viola i loro diritti, e nessuno ha il diritto di farlo».
Sebbene riduttive, queste due vertiginose citazioni delimitano sufficientemente l’orizzonte filosofico antispecista. Per Singer non si devono ledere gli interessi degli animali, per Regan non si devono ledere i loro diritti. Scorrete la pubblicistica antispecista e scoprirete che non si parla d’altro. Interessi e diritti, interessi o diritti, interessi e/o diritti. Per quanto appaia strano, l’antispecismo è decisamente antropocentrico. Se parla di animali, lo fa come solo un essere umano può fare. Mentre esalta il rispetto per la natura, proietta su di essa i valori del mondo in cui vive, quelli dell’Economia e dello Stato.
Gli antispecisti alla Singer non vengono sfiorati dal sospetto che le specie in sé non abbiano interessi (se non quello di sopravvivere). La bilancia dell’utilitarismo potrà fare da bussola al ministro, all’industriale o anche al ragioniere, ma al gatto è del tutto estranea. La bellezza degli animali, ai nostri occhi, non è data dalla loro innocenza dinnanzi ai nostri continui calcoli quotidiani? Qual è l’interesse di specie dell’uccello che fa il nido sul dirupo o della balena che si arena sulla spiaggia? Qual è l’interesse di specie dell’operaio che lavora in miniera o del fisico che progetta impianti atomici: vincere la coppa del mondo di calcio o farsi una villa con piscina? Che senso ha restringere la straripante realtà, caotica e multiforme, del mondo animale dentro lo striminzito recinto della ragione occidentale? Allo stesso modo, gli antispecisti alla Regan non si domandano perché agli animali non siano mai stati concessi pari diritti che agli umani.
Sarà per “discriminazione”? Sarà per “pregiudizio”? Oppure, più semplicemente, perché i “diritti” sono un concetto inventato di sana pianta, una concessione elargita dal sovrano per tenere a bada i suoi sudditi e spingerli verso una composta rivendicazione che salvaguardi dal pericolo di un’accesa rivolta? Gli animali, non insorgendo, non hanno bisogno di questa illusione. Se un domani venissero loro concessi dei diritti, sarebbe solo per perpetuare le illusioni degli esseri umani che si battono in loro favore.
È straziante notare nella stragrande maggioranza delle analisi antispeciste la totale assenza di ogni riferimento al contesto sociale in cui avviene lo sfruttamento animale. Come se questo fosse saltato fuori dal nulla, il giorno in cui la cattiva idea della superiorità specista ha contagiato l’essere umano. Se già è vano cercare di stabilire la precedenza di nascita dell’uovo e della gallina (è lo sfruttamento umano ad aver prodotto quello animale, o viceversa?), è per di più evidente che non esistono pregiudizio e discriminazione nei confronti degli animali. All’interno di questo mondo essi vengono sfruttati e trattati come merce, esattamente come gli esseri umani. Gli operai alla catena di montaggio non assomigliano forse alle galline di allevamento?
Attribuire questo sfruttamento alla “specie umana”, categoria del tutto astratta, è un ottimo modo per mettere fuori discussione l’organizzazione sociale esistente storicamente determinata. Non è più lo Stato, o il capitalismo, ad esser considerato responsabile dello sfruttamento, bensì una fantomatica “specie umana” in quanto tale (e cioè, di grazia, quale?). Di più, dallo Stato si esige il riconoscimento dei “diritti animali”, dal capitalismo si pretende l’apertura di “mercati etici” (ci sono antispecisti che danno da mangiare ai loro “fratelli” animali cibo in scatola vegano, il che mi sembra invero un notevole esempio di arroganza antropocentrica).
Che poi il rispetto per alcune specie animali presente in qualche società abbia convissuto con il più feroce sfruttamento umano (dall’Egitto che adora i gatti all’India che venera la mucca), o che il consumo di carne in alcune popolazioni sia reso inevitabile dallo stesso ecosistema in cui vivono (chi è disposto a spiegare agli eschimesi che dovrebbero cibarsi di frutta e verdura, pena l’essere paragonati ai nazisti?), o che la percezione dell’alimentazione onnivora vari a seconda dei momenti storici (mentre nell’antica Grecia il rifiuto di mangiare carne veniva considerato una offesa agli dèi, nell’Europa di qualche secolo fa e in parte nell’Italia d’oggi è una bestemmia mangiare carne il venerdì)... sono tutte cose che non interessano agli abitanti delle nuvole metafisiche antispeciste, i quali fanno della loro idea fissa la chiave di volta della storia universale, il “peccato originale” rimediato il quale si potrà infine entrare in paradiso (o finire nell’inferno dell’estinzione, nel caso in cui si ritenga questo peccato irrimediabile: è quel che auspicano, con rigorosa logica, gli antispecisti più pessimisti).
C’è poi una contraddizione di fondo nella teoria anti-specista che ne mina irrimediabilmente lo sviluppo. Da una parte, i suoi fautori sostengono che l’essere umano vada considerato alla stessa stregua degli animali, che non c’è motivo di attribuirgli una posizione particolare rispetto alle altre creature viventi. Dall’altra, a chi demandano il compito di porre fine allo specismo? Dopo aver dichiarato che l’essere umano è un animale come gli altri, chi pretendono che non si comporti come un animale? Nessuno chiede al leone di non sbranare l’antilope. Nessuno fa prediche al gatto perché si diverte ad uccidere il topo. Si dà per scontato che la natura segua il suo corso.
Solo all’essere umano viene chiesto di comportarsi differentemente. L’antispecismo lo definisce come l’animale che ha la scelta, che può decidere di non nuocere alle altre creature - e che quindi deve scegliere di non farlo. In altre parole, all’essere umano viene chiesto di comportarsi in pratica nel nome di quello stesso statuto differenziato che in teoria gli viene negato. Questo perché, se «l’emancipazione degli sfruttati sarà opera degli sfruttati stessi», l’emancipazione degli animali non sarà affatto opera dei diretti interessati. Solo l’essere umano può porre fine al loro sfruttamento.
Per altro, è proprio questo il motivo per cui generalmente il destino di miliardi di esseri umani desta più attenzione di quello di miliardi di animali. Non per insolenza “specista”, ma per semplice empatia. Perché, se un essere umano non riesce a vedere la sofferenza in un suo simile (e identificarsi con essa, e quindi infuriarsi e insorgere), figurarsi se la può vedere in chi è altro da sé. Ecco perché il ritornello antispecista che equipara razzismo/sessismo/specismo, che vorrebbe essere un’efficace arguzia argomentativa, si rivela una patetica trovata del tutto priva di senso. Tanto varrebbe far notare che il fiore strappato si appassisce in fretta, ciò denota una sensibilità, la fine di una vita, e quindi... (non ci credete? Andate a dirlo a quanti parlano con le piante).
...al vegan power
...al vegan power
All’interno di questo mondo è impossibile vivere senza essere in parte corresponsabili di quanto avviene, è impossibile non partecipare alla riproduzione sociale. Ma se non si vuole essere ciechi dinnanzi a quanto ci circonda, se non si vuole rimandare ad un comodo ed imprecisato futuro lo scontro con l’esistente, è ovvio che bisogna fare delle scelte, qui ed ora. Non è strano perciò che si possa decidere di rinunciare alla carne per non dare il proprio contributo al massacro di animali, ma dovrebbe essere singolare. Perché il terreno di queste scelte, il loro obiettivo, la loro priorità, la loro qualità, non è un dato oggettivo e valido per tutti. Dove si tira la linea?
Posso sicuramente fare a meno di indossare mocassini di pelle, ma come mi impedisco di pensare che dietro alle scarpe da ginnastica che porto ai piedi non ci sia sfruttamento? Posso evitare di azzannare una bistecca, ma penso davvero che dietro alla soja che mangio non ci sia sofferenza? È importante sollevare certe domande, senza dubbio, ma è assurdo pretendere di imporre una risposta univoca e valida per chiunque. Fra gli innumerevoli ricatti di questo mondo e l’esistenza che si intende vivere, ognuno tira la propria linea di demarcazione.
Sono tanti perciò i motivi che possono spingere un individuo a non mangiare carne, tutti pienamente rispettabili. Ma non ve n’è nessuno per cui questa scelta debba diventare un obbligo sociale. Se il veganesimo fosse una semplice dieta, non ci sarebbero ragioni per occuparsene. Purtroppo il consumo di alimenti integrali sta lasciando il posto ad un integralismo alimentare che pretende di stabilire cosa si possa e non si possa mangiare. E questo è inaccettabile.
Va da sé che ciò non accade certo ad opera di chi rifiuta la carne per motivi, poniamo, di salute. Solo fra chi ne fa una questione etica il veganesimo cessa di essere una dieta per diventare una verità. Ma la caratteristica dell’etica è di essere una faccenda individuale, che riguarda il singolo individuo alle prese con la propria coscienza. Appena pretende di diventare valida anche per tutti gli altri, appena aspira a diventare oggettiva, cessa di essere scelta etica per trasformarsi in costrizione morale. Il fatto che il più delle volte questo passaggio avvenga «con le migliori intenzioni» non modifica il risultato finale, che ha l’odioso aspetto del fondamentalismo.
Non si capisce perché, dopo aver indicato l’origine dei nostri mali nel passaggio da una sussistenza basata sulla caccia/raccolta ad una fondata sull’agricoltura e sull’allevamento, gli antispecisti condannino la dieta onnivora in sé. La caccia, non prevede forse l’uccisione dell’animale nonché il suo consumo? Se oggi questa pratica è diventata solo un crudele passatempo domenicale, è a causa del ruolo raggiunto dall’industria dell’allevamento nel rifornimento di cibo. Allorché questa industria infame dovesse scomparire, assieme al mondo di cui è espressione, c’è da credere che si tornerebbe alla caccia. Il consumo di carne diminuirebbe vertiginosamente, soprattutto nei paesi ricchi in cui è più diffuso, ponendo fine (o un robusto argine) ai disastri ecologici causati dall’allevamento che servono da grido di allarme alla propaganda antispecista.
Ma ciò per gli antispecisti sarebbe solo un ripiego riformista, un male minore. Per loro, la vita di un animale è di per sé sempre inviolabile. Seguendo quest’ottica, l’indiano pellerossa che abbatte il bisonte più anziano per sfamare la sua tribù non è poi tanto diverso dall’allevatore che manda al mattatoio capi di bestiame nati e cresciuti in schiavitù per rimpinguare il suo conto in banca. Occupano solo due gradini diversi nella scala dell’infamia. Contro questa logica demenziale, vale la pena ricordare quanto diceva un vecchio filosofo: Io posso uccidere ma non torturare. Io posso uccidere uomini e posso uccidere animali, ma non rinchiuderli, sfruttarli, vivisezionarli. Voglio aprire le gabbie per ridare agli animali la libertà, non per assicurar loro il benessere, la sicurezza, la protezione perpetua. E il colore della libertà non è né il verde né il rosa, ma il nero. È più facile trovare la libertà in una giungla, con le sue insidie, piuttosto che in un convento, con le sue preghiere.
Laddove la condanna della dieta onnivora non emana il tanfo della morale, è perché viene coperta dall’olezzo profumato della scienza. L’essere umano non deve mangiare carne perché non è nella sua natura. Lo dimostrerebbe la conformazione dei suoi denti, la lunghezza del suo intestino e via vivisezionando. Oppure, non deve mangiare carne perché questa costituisce un rischio per la sua salute, che si troverebbe aggredita dal colesterolo, dai tumori e quant’altro. Che tristezza in queste argomentazioni! A parte il fatto che, come al solito in ambito scientifico, sarebbe facile trovare esperti in grado di perorare qualsiasi tesi al riguardo. Ma poi, che senso ha? Io voglio mangiare quello che mi piace, quello che mi titilla i sensi, non quello che tecnicamente dicono si adatti ai miei molari e ai miei enzimi. E provo disgusto per questa concezione anoressica della vita che mira a risparmiare le energie individuali, a conservarle, invece di sperperarle.
Non vedo perché dovrei rinunciare a mille piaceri per farmi trovare in perfetta salute il giorno della mia dipartita. Il mio piacere non può causare la morte altrui? E chi l’ha detto? Nella natura selvaggia tanto amata (a parole) dagli antispecisti, il piacere degli uni decreta spesso la morte degli altri. Non occorre essere lettori di Sade o di Fourier per capire che l’essere umano non fa eccezione. La libertà non è affatto la morigerata negazione di questi conflitti e di queste violenze, ma è il rifiuto della loro organizzazione sistematica, della loro regolamentazione gerarchica, della loro subordinazione al profitto e al potere. Ci saranno sempre assassini e spargimenti di sangue, ma bisogna impedire che ci siano generali e guerre.
Infine, come non fare alcune osservazioni sulla qualità del veganesimo presente nel movimento? Che negli Stati Uniti, paese celebre per il suo cibo-spazzatura e per le sue coltivazioni ogm, il veganesimo vada alla ricerca di prodotti esotici più o meno stravaganti, è cosa facilmente comprensibile. Che ciò accada anche qui in Italia, il cui piatto simbolo è la pastasciutta nelle sue molteplici varianti, culla della dieta mediterranea, è cosa che non cesserà mai di stupirmi.
Abbiamo la fortuna di vivere nel paese dove l’arte della cucina è nata, dove la qualità delle materie prime alimentari è insuperabile, dove la tradizione culinaria vanta innumerevoli ricette, e cosa fanno molti vegani? Dopo aver importato l’ennesima subcultura a stelle e strisce, si nutrono di soja e dei suoi derivati (prodotti considerati “naturali”, per la cui coltivazione, lavorazione ed esportazione non si parla mai di sfruttamento, sic!). Peggio ancora, pretendono che anche gli altri lo facciano! Andare alle cene organizzate dai vegani nelle varie iniziative di movimento, per un peccatore di gola è il più delle volte una sofferenza. Come se la coerenza con certi principi dovesse accompagnarsi per forza alla mortificazione dei sensi, in omaggio al noioso precetto «prima il dovere, dopo il piacere».
Nessuno si aspetta che in queste situazioni sia possibile trovare piatti a base di carne o pesce. Meno ovvio è che non ci sia traccia di formaggio (non trattandosi di brani di cadaveri, e non essendo necessariamente frutto dello sfruttamento). Ma è insopportabile ritrovarsi a mangiare pure cibo qualitativamente scadente e dalla provenienza sospetta solo perché l’ideologia vegana di origine yankee non conosce le tagliatelle al pomodoro, la peperonata, la pasta e fagioli, le zucchine in pastella, la frittura mista di verdura, il risotto ai funghi, le orecchiette alle cime di rapa, gli gnocchi alle erbette, gli spaghetti con la crema di carciofi, gli involtini di melanzane... e si potrebbe andare avanti all’infinito. Il risultato è che mentre di solito gli onnivori stanno attenti a venire incontro ai principi dei vegani, la maggior parte dei vegani non fa nulla per venire incontro ai gusti degli onnivori. Alla faccia della convivialità e del piacere di stare insieme a tavola!
Con la sua lotta contro il fantasma dello “specismo” piuttosto che contro la realtà dello Stato e del capitalismo, e con la sua prospettiva di un mondo gentile e virtuoso, privo di violenza e di conflitti, sterilizzato da ogni passione e bonificato da ogni eccesso, abitato solo da anacoreti del tofu e da cenobiti del seitan (quei due insulsi metadoni alimentari), l’antispecismo non fa altro che ridurre la guerra sociale ad una crociata santa. Conseguenza beffarda di questo slittamento: sorto proprio per fugare le accuse di superficialità e di interclassismo rivolte all’animalismo, l’antispecismo finisce col confermarle ed alimentarle.
Peggio ancora, inquina le lotte di liberazione animale col fetido aspersorio della morale. Se questo è superamento...
Machete
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