Friday, February 1, 2013

IL MOSTRO (non è l’inflazione ma il BILANCIO DELLE BANCHE)

Immaginiamo una azienda che produce etichette. Quando fabbrica i suoi autoadesivi, il diligente amministratore annota al passivo le spese sostenute per approntarli: materie prime, ore di lavoro, competenze di eventuali subfornitori e terzisti, spese generali. Tutte le spese sostenute per la produzione vengono computate nel costo totale dell’etichetta e saranno scritte al passivo nel bilancio.
Finché il rotolo nuovo di etichette resta in magazzino, il suo valore è calcolato a prezzo di costo. Quando finalmente viene venduto, il fabbricante ottiene il suo ricavo, che verrà scritto negli attivi di bilancio. La parte di ricavo che eccede le spese è l’utile, che, se si sarà mantenuto per tutto l’anno, risulterà in bilancio e verrà tassato.

Avviene però che il cliente di questa azienda sia una catena di supermercati che richiede le etichette con il prezzo dei prodotti. Allora l’amministratore dell’etichettificio comincia a fatturare al supermercato la cifra scritta sulle etichette: 1.000 etichette con scritto il prezzo “2 euro”, costo 2.000 euro, 10.000 etichette con scritto il prezzo “10 euro”, costo 100.000 euro. 

Si tratta di cifre complessive favolose ed è strano che l’amministratore del supermercato le paghi senza richiedere la prova dell’etilometro al suo fornitore (alcune male lingue parlano di un co-interessamento dei vertici del supermercato con il giro di soldi). Comunque le paga e l’etichettificio si trova con degli utili astronomici. Come fare a giustificarli mentre il supermercato va in rovina e i suoi dipendenti sono inferociti? E come ridurre le salatissime tasse?

Ecco che il padrone dell’etichettificio ha una bella idea: con qualche spicciolo finanzia dei convegni di studi coinvolgendo anche grossi nomi e università e fa elaborare gli ILS (International Labelling Standard) dei criteri standard per la contabilizzazione delle etichette.
In base a queste norme compila il bilancio a fine anno, scrivendo nei passivi i prezzi a cui ha venduto le etichette, e negli attivi l’identica quantità di soldi ricevuta dal supermercato. Poi, siccome ha concesso al supermercato di pagare con dilazioni importanti (12, 24 mesi e più) aggiunge agli attivi gli interessi su queste dilazioni, interessi che verrebbero a costituire l’utile dell’etichettificio.

Naturalmente, dopo la presentazione del bilancio, gli azionisti e gli amministratori della società vengono immediatamente incriminati per truffa, falso in bilancio ed evasione fiscale.

La banca fa la stessa identica cosa, ma per lei, inaudita eccezione, è perfettamente legale. Perché gli IAS (Account International Standard), le regole contabili (scritte dai banchieri stessi), sono recepite nelle legislazioni nazionali.
E così, il denaro nuovo, stampato di fresco, viene ceduto allo Stato, non al costo tipografico ed eventuali utili commisurati, ma al valore scritto sulle banconote e tale valore nominale viene iscritto nel bilancio della banca al passivo.

Molti commentatori hanno già messo in luce l’anomalia per cui la banca compare come proprietaria del denaro che crea dal nulla. Molti hanno insistito su come questo fatto generi sfruttamento del lavoro, parassitismo, ingiustizia.
Però, a mio parere, non si insiste abbastanza nel sottolineare che questo metodo non funziona e non potrà mai funzionare, anzi racchiude in sé il fallimento del sistema, ineluttabilmente sancito da poche regolette di aritmetica elementare.

Se la banca è l’unico ente autorizzato ad emettere denaro (la Banca Centrale creandolo e le banche commerciali moltiplicandolo grazie alla riserva frazionaria), significa che tutto il denaro che esiste è emesso dalla banca. Non esistono altre fonti di denaro, (si badi bene che diciamo “di denaro”, non “di ricchezza”). Quindi tutto il denaro che circola è gravato di interesse.

Certamente, al momento in cui il sistema si è avviato, esisteva del denaro di proprietà, ottenuto in precedenza senza interesse. Ma con la maturazione del sistema, quindi col passaggio di mano dei soldi, con l’aumento della massa monetaria, e con l’erosione continua dovuta agli interessi, questa quota di denaro “libero” è svanita o si è ridotta ad una percentuale insignificante. Dunque tutto il denaro che esiste, esiste in forma di debito su cui si paga un interesse. 

Ma lo stipendio che si percepisce, la vendita di un immobile, gli affari dei commercianti, come è possibile dire che sono soggetti a interesse? 

L’interesse si paga senza vederlo, sotto forma di tasse, oppure nascosto nei prezzi al consumo. (1)

Perciò, globalmente, il sistema funziona così: la banca emette tutto il denaro, lo chiamiamo 100. E vuole l’interesse (supponiamo) del 5%. Se tutto il denaro che esiste è 100, come fa la società a restituire 105? Semplicemente non può.
Se la banca accettasse come quota interessi un chilo di pane, un cesto di fragole, due schiavi nubiani che arieggiano l’ufficio del direttore con i loro larghi flabelli, allora si potrebbe. Ma la banca non li accetta, no, no, la banca vuole proprio e solo il denaro, che è l’unica cosa che, per legge, nessun membro della società civile può produrre. Se un cittadino stampasse un po’ di denaro da gettare come offa agli insaziabili trangugiatori di interessi, sarebbe un falsario, perché il denaro è l’unica cosa che può produrre la banca e può produrlo soltanto lei.

Per questa ragione si crea il paradosso che persino la crescita economica aumenta il debito. Infatti, se aumentano i beni prodotti, per scambiarli occorre più denaro e questo sarà emesso dalla banca solo dietro emissione di cambiali (pubbliche o private) a interesse.

“Ma che discorsi!” Dirà l’uomo della strada “Se un’azienda o uno stato guadagnano bene, possono pagare gli interessi e resterà ancora un utile nelle loro mani”. Questa reazione emotiva, basata sull’abitudine, descrive solo un evento locale. Guadagnare soldi significa acquisire la proprietà di soldi che aveva qualcun altro, non crearne. Se tutto il denaro esistente è 100, qualcuno guadagna e qualcuno perde, ma 100 resta. E se alla banca deve tornare 105, la società, nel suo complesso, resterà insolvente verso la banca.

Se dunque non è possibile restituire alla banca il denaro dovuto, la società nel suo complesso o si dichiara insolvente, oppure prende a prestito la somma per pagare gli interessi, indebitandosi sempre di più. Prende 100 in prestito e, l’anno seguente, prenderà 105, per pagare capitale e interessi, l’anno successivo105 più il 5% e così via. E’ uno “schema Ponzi”, volgarmente detto “catena di sant’Antonio”, che cresce costantemente, finché si sta al gioco, e poi crolla.

E i costumi finanziari moderni, soprattutto per l’Euro, hanno accentuato la criticità del sistema, accelerando il momento dell’insolvenza, tramite la valutazione del debito in base agli indicatori (rapporto debito/PIL e valutazioni varie), trattando il debito come se fosse reale.
Per l’Euro la situazione è doppiamente grave, in quanto l’assoluta indipendenza della BCE dalle istituzioni politiche (quindi dai ministeri dell’economia e delle finanze) priva la moneta europea di un qualunque governo sensato e la abbandona alla speculazione.

Questa impostazione della finanza basata sul debito è dunque fallimentare in se stessa e sta svelando, ogni giorno di più, la sua inadeguatezza. Ma il punto nevralgico del meccanismo è l’apposizione al passivo nel bilancio della Banca Centrale del denaro circolante, perciò è opportuno fare alcune attente osservazioni al riguardo.

1) Questa pratica è ingiustificata. Non esiste nessun motivo concreto o plausibile per cui il costo di una banconota da 100 euro debba essere conteggiato 100 euro, quando la sua stampa costa circa 3 centesimi.

2) Questa pratica è contraddittoria. Infatti, per ragioni inspiegabili, il conio delle monete metalliche è di competenza degli Stati e risulta all’attivo in bilancio. Dunque, la stessa operazione di creazione del denaro, viene contabilizzata al passivo o all’attivo a seconda di chi la compie, realizzando così un capolavoro di illogicità.

3) Questa pratica non è rappresentativa della realtà. La realtà infatti, il mondo in cui viviamo, costituisce nel suo insieme un grande attivo che è la bontà dell’esistenza. E tale attivo presuppone dei crediti gratuiti iniziali, costituiti dalla nostra stessa vita e dalla natura, che contiene tutto ciò che ci consente di vivere. Dunque se il bilancio di un’attività vuole rispecchiare la realtà, tale bilancio deve essere in attivo. Il bilancio a somma zero appiattisce l’economia all’atto della transazione, escludendo la natura, il lavoro, il numero di persone coinvolte…in poche parole, la vita.

4) Questa pratica riflette una mentalità nichilista. Si deve questa brillante osservazione a Giovanni Passali, economista leader del sito “moneta complementare”, che traduce in un linguaggio filosofico l’osservazione del punto precedente.
In effetti la contabilità bancaria considera la vita un passivo e il numero un attivo.
Perché passivo viene considerato il denaro circolante, che assolve, nell’organismo economico, la stessa funzione del sangue che circola in un organismo vivente. Ovvero trasporta il nutrimento e tutte le sostanze che occorrono alla vita materiale. Ed è adempiendo questa funzione che acquista il suo valore, un valore del tutto “spirituale”, che consiste nella fiducia di una comunità nell’accettarlo in pagamento, al fine di scambiare i frutti del proprio lavoro. Mentre attivo, per il bilancio bancario, sono i pezzi di carta che non circolano, ma ritornano all’immobilità della cassaforte. Immobilità che è la morte del denaro e la perdita del suo valore: se non è speso, si riduce a essere un pezzo di carta, neppure buono per accendere il fuoco perché, per l’appunto, è chiuso in cassaforte.

Eppure i banchieri e i loro servitori in livrea (ve ne sono tra i politici, i giornalisti, gli economisti, i professori e financo fra ben noti rettori universitari) ci terrorizzano raccontando che loro sono lì, in quella smisurata e illecita posizione di potere che proviene dalla creazione e dal controllo della moneta, per proteggerci dalla catastrofe dell’inflazione, autentico spauracchio sventolato come deterrente per chi volesse obiettare qualcosa alle loro politiche di schiavizzazione delle nazioni.

“L’inflazione eroderà il vostro stipendio, consumerà i vostri beni come il fuoco, vi ridurrà in miseria” (peraltro tutte cose che costoro fanno attivamente, positivamente e pertinacemente, a nostro danno e a proprio vantaggio) così ci dicono, ma si guardano bene dal lasciar trapelare che il buco nero che inghiotte il PIL di intere nazioni è lì nel loro bilancio.
Non solo, ma quelle poche crisi da iperinflazione che hanno fatto storia, non sono mai state causate dal denaro di Stato, ma sempre dalla speculazione al ribasso che loro stessi, banchieri e finanzieri internazionali, hanno condotto contro tali monete sovrane.
I casi della repubblica di Weimar e di alcuni Stati africani sono tutti identici: nazioni con un forte debito estero, a cui si faceva fronte con stampa di moneta per pagamenti internazionali.
Furono tutti vittime di vendita allo scoperto della propria divisa, che, causando svalutazione, richiedeva nuova stampa per coprire il debito estero, calcolato in oro (Weimar) o in dollari americani (Zimbabwe e altri Stati). (2)
Si innescava così un circolo vizioso senza fondo, in cui l’inflazione era figlia della svalutazione e non dell’eccesso di stampa di moneta.

Infine ci tocca registrare che quel passivo artificioso che la banca scrive nella propria contabilità (la Banca Centrale scrive al passivo il denaro che crea dal dal nulla, le comuni Aziende bancarie scrivono al passivo i crediti che erogano sulla base del quasi-nulla) non fa bene neppure al bilancio della banca.
Infatti quell’enorme passivo, se da una parte permette di eludere le tasse, dall’altra espone gli istituti bancari all’incertezza: basta qualche insolvenza per mandare i conti in rosso. E la totale mancanza di vincoli che ha la banca nell’erogazione dei prestiti (3) invita gli istituti di credito a prestare irresponsabilmente a più non posso: si sa, l’occasione fa l’uomo ladro.

Il risultato finale del passivo artificiale, con cui è contabilizzato il denaro, è duplice: da una parte abbiamo gli immani debiti pubblici, che mai potranno essere ripagati, dall’altra un bilancio bancario che oscilla pericolosamente sulla linea di galleggiamento.

E fin ora si è ovviato a questa disfunzione strutturale con trucchi ed escamotage. Da una parte sta apparendo chiaramente che i bilanci degli Stati sono falsati: una grossa fetta dei passivi sono occultati deviandoli nelle “casse depositi e prestiti” o loro omologhe. Anche la virtuosa Germania nasconde il 20% del suo debito nella pancia della KfW e, insieme a Francia Italia e Portogallo, si rifiuta di fornire i dati reali alla Commissione economica del Parlamento europeo (Econ), come denunciato nel giugno di quest’anno dalle istituzioni di Bruxelles.

Dall’altra parte si sussurra nei corridoi che anche i bilanci delle banche sono truccati. Del resto, anche se non lo fossero, tutti i salvataggi invocati dalle banche negli ultimi anni dimostrano un malessere che non può essere occasionale o frutto di una crisi passeggera. Si tratta ovviamente di un problema sistemico, anzi, come abbiamo visto sopra, matematico.

Perciò, concludendo, non è più il momento di aggiungere una pezza a una struttura tarlata, bisogna cambiare l’architrave del nostro sistema finanziario, prima che tutta la nostra casa economica ci crolli in testa. Tra le priorità di qualsivoglia governo riformatore, deve esserci la revisione dei criteri contabili (gli IAS) che porti all’eliminazione di quel passivo nichilista che inghiotte senza sosta le nostre ricchezze, la nostra libertà, la nostra vita.



Note: 
(1) Margrit Kennedy, negli anni ’80 in Germania calcolò la quota interessi presente nei prezzi al dettaglio dei più comuni beni di consumo, che la gente si compra per vivere. Tra alti e bassi risultò una media del 45%, cioè su 100 Marchi di spesa al supermercato, 45 erano destinati al pagamento di interessi. Per quanto riguarda le tasse, in Italia la quota interessi corrisponde quasi al 20% dell’intero gettito fiscale.

(2) Ellen Brown ha condotto degli studi magistrali su questi temi, documentandoli adeguatamente e pubblicando degli articoli reperibili anche in lingua italiana.

(3) Le norme di Basilea 3, permettendo di calcolare nella riserva della banca i crediti che vanta verso terzi, fanno dipendere la quantità totale del credito erogabile dalla capacità dei clienti di indebitarsi, quindi non esiste più formalmente nessun legame tra il vero capitale depositato e la quantità di denaro che la banca può prestare.


di Andrea Cavalleri
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