L’Europa è avvolta in una spirale senza uscita fatta di ricette controproducenti, mentre la crisi fa il suo lento, inesorabile lavoro. Le famiglie, se possono, risparmiano e contraggono i consumi. Le imprese non investono. Le banche cercano di limitare i danni e riducono il credito. Una crisi di debito estero (prevalentemente privato) è stata spacciata per una crisi di debito pubblico. La spesa pubblica viene bloccata con perfetto tempismo da un trattato internazionale che impone un rozzo vincolo di pareggio di bilancio, senza troppo distinguere se si tratti di spesa per investimenti o di spesa corrente.
Era ben noto che una politica di repressione della spesa pubblica, in presenza di un eccesso d’indebitamento del settore privato e di tassi di interesse già bassi e ai minimi storici, non poteva che avere effetti deleteri. Il crollo della domanda interna ha raggiunto le economie più solide della zona euro, che si avvicinano anch’esse a scenari recessivi. Assumendo l’impossibilità di una follia collettiva di tutte le classi dirigenti europee, resta da chiedersi cui prodest? A chi giova tutto questo?
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Non è un caso che le ricette per uscire dalla crisi più in voga si concentrino su un punto: la dismissione del patrimonio pubblico per ridurre il debito. Ovviamente, la sensazione di trovarsi in un vicolo cieco per le finanze pubbliche, con la scelta obbligata di privatizzare enti, beni e servizi pubblici, è la scena classica di un film già visto in tante parti del mondo.
Non ci si arriva per caso, anzi, spesso è uno degli obiettivi neanche troppo nascosti della lunga strategia di logoramento del settore pubblico, la cosiddetta “starve the beast”. La bestia è lo stato, nemico ideologico da affamare, sottraendo continuamente risorse necessarie al suo funzionamento. La qualità dei servizi che esso eroga al cittadino diminuisce. Il cittadino lo nota e incomincia a chiedersi se davvero valga la pena mantenere in piedi con le proprie imposte un servizio pubblico sempre più scadente.
Poi arrivano i salvatori della patria, che comprano l’azienda o servizio pubblico a un prezzo conveniente e ne estraggono profitti. Quando va bene, il nuovo proprietario del servizio ex-pubblico lo eroga in modo più selettivo e a costi maggiori per il cittadino. Quando va male, scorpora la parte migliore da quella cattiva, scarica i costi sulla collettività (bad companies), sfrutta gli attivi ancora validi, e poi scappa.
La privatizzazione della sanità negli Stati Uniti ha raddoppiato i costi per i cittadini, escludendo un’enorme fetta della popolazione da ogni copertura sanitaria. Una volta capito l’errore commesso e verificati i costi economici e sociali di tale processo, l’inversione di questa tendenza nefasta è l’atto che Obama considera come il più importante del suo primo mandato presidenziale.
L’esperienza delle “riforme” nell’Europa centrale ed orientale subito dopo la caduta del comunismo ci insegna che le privatizzazioni realizzate per necessità di far cassa si traducono in svendite di beni comuni a vantaggio di pochi privati, che i primi servizi a essere privatizzati sono quelli che funzionano meglio, i gioielli di famiglia, e che questo contribuisce a un notevole aumento delle disuguaglianze.
Altre parti del mondo, come l’America Latina, hanno vissuto esperienze simili, in cui beni e servizi pubblici sono stati ceduti a condizioni vantaggiose solo per l’acquirente. Non è un caso che Carlos Slim, l’uomo più ricco del mondo secondo Forbes, debba la sua fortuna alle privatizzazioni selvagge degli anni ’80-‘90 in Messico, dalle miniere alle telecomunicazioni.
Adesso è il turno della vecchia Europa. Il Portogallo ha chiuso il 2012 privatizzando gli aeroporti, la compagnia aerea nazionale, la televisione (ex) pubblica, le lotterie dello stato e i cantieri navali. In Spagna le privatizzazioni “express” riguardano i porti, gli aeroporti, la rete di treni ad alta velocità, probabilmente la migliore e più moderna d’Europa, la sanità, la gestione delle risorse idriche, le lotterie dello stato e alcuni centri d’interesse turistico. La Grecia è stata recentemente esortata ad accelerare il processo di privatizzazione dei beni e servizi erogati finora dallo stato, come condizione per continuare a ricevere gli aiuti europei.
In Italia Mario Monti, poco prima di dimettersi da Presidente del Consiglio, decretava l’insostenibilità finanziaria del sistema sanitario nazionale, spiegando la necessità di “nuovi modelli di finanziamento integrativo”. L’agenda Monti oggi ci ricorda che “la crescita si può costruire solo su finanze pubbliche sane” e quindi invita a “proseguire le operazioni di valorizzazione/dismissione del patrimonio pubblico”. E sulle prime pagine di alcuni giornali c’è anche chi vede ancora “troppo stato in quell’agenda”.
La teoria economica e l’esperienza del passato ci insegnano che la privatizzazione di aziende pubbliche se da un lato riduce il deficit di un dato anno, dall’altro ha un notevole rischio di aumentare il deficit di lungo periodo, nel caso in cui l’azienda dismessa sia produttiva. Inoltre non basta che la gestione privata sia più efficiente di quella pubblica; il guadagno di efficienza deve anche assorbire il profitto che il privato necessariamente persegue.
Se chi vende (lo stato) ha urgenza e pressioni per farlo, chi acquista (privati) ha un chiaro vantaggio negoziale, che gli permette di ottenere condizioni più convenienti. E se le condizioni della privatizzazione sono più convenienti per il privato, esse saranno simmetricamente più sconvenienti per il pubblico, cioè i cittadini.
Studi recenti dimostrano come i cittadini dei paesi che hanno subito privatizzazioni rapide e massicce negli anni ’90 siano profondamente scontenti degli esiti. I giudizi ex-post sono tanto più critici quanto più rapide erano state le privatizzazioni, maggiore la proporzione di servizi pubblici svenduti (acqua ed elettricità in particolare), e più alto il livello di disuguaglianza creatosi nel paese.
La questione delle privatizzazioni è il punto d’arrivo del processo che l’Europa e l’Italia stanno vivendo. Discuterne più apertamente è fondamentale, se si ha a cuore il bene comune. Le decisioni che si prenderanno in proposito definiranno la rotta che l’Italia sceglierà di seguire nel dopo-elezioni.
di Agenor
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Gli orrori del profitto
Le devastazioni provocate dalla crescita economica sono tali che la società capitalista moderna si caratterizza più per quello che distrugge che per quello che crea. Nessuna opera può ormai essere paragonata alle rovine create dalle sue esigenze. Questo significa, ovviamente, che la sete di benefici che guida il sistema produttivo e per tanto il modo di vivere che esso comporta viene spenta malgrado la valanga di danni per la popolazione, che vanno dai rischi per la salute (l'inquinamento provoca un quarto delle malattie) fino ai disastri ambientali.
La distruzione ha raggiunto un livello talmente elevato che il contrasto tra interessi privati e danni pubblici diventa visibile anche ai più ritardati. E' a questo punto che dalle alte sfere del potere parlano di conflitto ambientale e territoriale, di cultura del no e di governance interattiva. E' da un po' di tempo che i problemi legati al lavoro hanno smesso di essere fonte di preoccupazione per i dirigenti, come dimostra il fatto che più del 40% dei lavoratori guadagni meno di 1000 euro al mese: questo grazie al fatto che, sotto la minaccia di precarietà e di esclusione, i meccanismi di controllo e di integrazione funzionano perfettamente.
Non è così in altri casi dato che il fallimento dell'ecologismo politico ha fatto emergere la questione sociale, espulsa dai quartieri e dalle fabbriche, nelle lotte chiamate a torto ambientali e in particolare nella difesa del territorio, senza ruolo di contenimento e dispersione della "democrazia partecipativa". Nonostante tutto, questo emergere non è stato così tanto travolgente da produrre un fenomeno di coscienza generalizzato e alle lotte resta ancora tanta strada da fare.
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Italia Libera...
Io sto dalla parte NOSTRA, ossia quella degli Italiani indipendenti e padroni di decidere del loro futuro. Non sto con Grillo e Casaleggio, non con Berlusconi, non con Bersani, non con Monti, non con l'Unione Europea, non con la NATO, non con la CIA, non con Rockefeller, non con i Rothschild. Sto con l'Italia indipendente e non colonia anglo-americana.
Le mie proposte per la crisi sono le seguenti: uscita dalla NATO, dalla EU e quindi dall'Euro, ritorno alla moneta nazionale, rinuncia ai trattati di Maastricht, Lisbona, Velsen, al Fiscal Compact e al Meccanismo Europeo di Stabilità.
Propongo di aprire inchieste sugli omicidi di Giovanni Falcone, Aldo Moro ed Enrico Mattei, sulla vicenda del Britannia e sugli eventi che hanno portato alla svendita delle grandi aziende di stato. Propongo di fare i conti con la storia e con noi stessi, far saltare fuori le verità vere e liberarci della schiavitù in cui ci tengono gli anglo-americani.
Quando la crisi avrà raggiunto il suo apice e l'intera umanità sarà definitivamente in ginocchio (qui non si tratta della sola Italia), i banchieri instaureranno un Nuovo Ordine Mondiale fondato su una nuova valuta internazionale: la moneta unica elettronica.
E qui, entrerà in gioco Bersani, suo assennato sostenitore.
Giunti a questo punto, sarà tardi per opporsi alla dittatura voluta da questi servi del potere. La sola ed unica via di salvezza sarebbe quella di porre le banche centrali sotto il controllo dello Stato e sottomettere i parlamenti alla sovranità popolare attraverso nuove regole di democrazia partecipativa.
Ma dobbiamo riconoscere che questa è utopia: dopo 5 minuti avremmo l'ONU a cannoneggiarci oppure avremmo un'esatta replica del 9 maggio 1978 dove si consumò l'ennesimo delitto di chi volle provare a modificare le regole del monopolio esclusivo delle banche centrali: il presidente dell'allora partito politico di maggioranza, Aldo Moro...
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Gli orrori del profitto
Le devastazioni provocate dalla crescita economica sono tali che la società capitalista moderna si caratterizza più per quello che distrugge che per quello che crea. Nessuna opera può ormai essere paragonata alle rovine create dalle sue esigenze. Questo significa, ovviamente, che la sete di benefici che guida il sistema produttivo e per tanto il modo di vivere che esso comporta viene spenta malgrado la valanga di danni per la popolazione, che vanno dai rischi per la salute (l'inquinamento provoca un quarto delle malattie) fino ai disastri ambientali.
La distruzione ha raggiunto un livello talmente elevato che il contrasto tra interessi privati e danni pubblici diventa visibile anche ai più ritardati. E' a questo punto che dalle alte sfere del potere parlano di conflitto ambientale e territoriale, di cultura del no e di governance interattiva. E' da un po' di tempo che i problemi legati al lavoro hanno smesso di essere fonte di preoccupazione per i dirigenti, come dimostra il fatto che più del 40% dei lavoratori guadagni meno di 1000 euro al mese: questo grazie al fatto che, sotto la minaccia di precarietà e di esclusione, i meccanismi di controllo e di integrazione funzionano perfettamente.
Non è così in altri casi dato che il fallimento dell'ecologismo politico ha fatto emergere la questione sociale, espulsa dai quartieri e dalle fabbriche, nelle lotte chiamate a torto ambientali e in particolare nella difesa del territorio, senza ruolo di contenimento e dispersione della "democrazia partecipativa". Nonostante tutto, questo emergere non è stato così tanto travolgente da produrre un fenomeno di coscienza generalizzato e alle lotte resta ancora tanta strada da fare.
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Io sto dalla parte NOSTRA, ossia quella degli Italiani indipendenti e padroni di decidere del loro futuro. Non sto con Grillo e Casaleggio, non con Berlusconi, non con Bersani, non con Monti, non con l'Unione Europea, non con la NATO, non con la CIA, non con Rockefeller, non con i Rothschild. Sto con l'Italia indipendente e non colonia anglo-americana.
Le mie proposte per la crisi sono le seguenti: uscita dalla NATO, dalla EU e quindi dall'Euro, ritorno alla moneta nazionale, rinuncia ai trattati di Maastricht, Lisbona, Velsen, al Fiscal Compact e al Meccanismo Europeo di Stabilità.
Propongo di aprire inchieste sugli omicidi di Giovanni Falcone, Aldo Moro ed Enrico Mattei, sulla vicenda del Britannia e sugli eventi che hanno portato alla svendita delle grandi aziende di stato. Propongo di fare i conti con la storia e con noi stessi, far saltare fuori le verità vere e liberarci della schiavitù in cui ci tengono gli anglo-americani.
Quando la crisi avrà raggiunto il suo apice e l'intera umanità sarà definitivamente in ginocchio (qui non si tratta della sola Italia), i banchieri instaureranno un Nuovo Ordine Mondiale fondato su una nuova valuta internazionale: la moneta unica elettronica.
E qui, entrerà in gioco Bersani, suo assennato sostenitore.
Giunti a questo punto, sarà tardi per opporsi alla dittatura voluta da questi servi del potere. La sola ed unica via di salvezza sarebbe quella di porre le banche centrali sotto il controllo dello Stato e sottomettere i parlamenti alla sovranità popolare attraverso nuove regole di democrazia partecipativa.
Ma dobbiamo riconoscere che questa è utopia: dopo 5 minuti avremmo l'ONU a cannoneggiarci oppure avremmo un'esatta replica del 9 maggio 1978 dove si consumò l'ennesimo delitto di chi volle provare a modificare le regole del monopolio esclusivo delle banche centrali: il presidente dell'allora partito politico di maggioranza, Aldo Moro...
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